Cyon no Jiyu
Personaggi: am: chibiusa, am: usagi tsukino
Rating: Verde
Genere: Malinconico, Triste
Note: One-shot
Numero parole: 2461
Introduzione: Quando la Luce aggiunse al suo deserto una desolazione inaudita.
Cyon no Jiyu
Erano esattamente le giornate di pioggia — quelle senza tuoni nè fulmini — a rendere opache le ali brillanti e colorate di una farfalla, a privare il cielo del suo azzurro zaffiro, a rendere lui inspiegabilmente poetico, a rendere Lei insolitamente triste.
Vi era una dote — senza arte nè parte — che teneva celata a chiunque e che aveva affinato nel corso del tempo, anche quando la sua chioma si era fatta argentea e la sua postura leggermente incurvata. Osservare, far scorrere lo sguardo sulle persone, su di Lei e lentamente fare suoi i loro pensieri, i lineamenti dei loro sguardi.
Perchè lui sapeva tutto. Di Lei, Serenity e di loro. Conosceva la piega morbida delle sue labbra corrucciate, chiudendo gli occhi immaginava il battito frenetico delle sue ciglia e l'aggrottarsi della sua fronte con lo stemma della Luna sempre splendente ed etereo.
Si era soffermato a guardarla, seduta alla grande finestra della loro camera, con le spalle lattee rivolte alla porta ed il capo biondo abbandonato con grazia sul palmo di una mano. Il suo sguardo puntava l'esterno, completamente perso a se stesso, mentre fuori si scatenava la pioggia, splendeva il sole, regnava la pace o tuonava la guerra.
Tutto era mutevole attorno a Lei. Serenity era la colonna di marmo su cui l'edera si aggrappava a forza e a fatica, chiedendo ospitalità e ricevendo conforto.
Era amata ed al contempo amava. Non solo lui, ma tutto il suo popolo. Il giorno dell'Incoronazione, sentendo il palmo della sua mano affondato nel proprio, aveva compreso che Serenity non sarebbe mai stata completamente sua, ma anche di altri. Condivise col popolo il suo cuore, ma gioì segretamente di saperla sua nel corpo e nell'anima.
Molti cicli lunari si erano conclusi, altri li avevano seguiti. Mentre la piccola Lady cresceva determinata, i fili d'argento presero ad adornare il capo di Serenity, rendendola ancora più bella ai suoi occhi, ancora più eterna. Ma niente cambiò nelle abitudini della Regina. Quella grande finestra l'attirava a sè e Serenity si lasciava coccolare dai raggi accoglienti del sole o cedeva alla tristezza nei giorni di pioggia.
E quel giorno, la pioggia si riversava a terra con un moto incessante, bagnando i balconi del palazzo e cogliendo di sorpresa i passanti.
Lei era lì, dove sempre l'avrebbe vista. Dove per sempre sarebbe stata.
A cosa pensi, Serenity? Avrebbe voluto farle questa domanda. Tante e tante volte. Tutte le volte che la vedeva sedere malinconica, abbandonata a chissà quali pensieri, a chissà quali ricordi. La paura che non condividessero più nè gioie nè dolori gli serrava il cuore. Aveva paura di illudersi di saperla sempre al suo fianco, per scoprire che lei invece era distante. Serenity era sempre lì, a quella finestra, ma a volte dubitava che vi fosse veramente. Vi era col corpo, ma non con il cuore.
E divampava la gelosia, la costringeva a dirle che lo amava e che sempre lo avrebbe amato. La spogliava delle sue vesti e la faceva sua, di nuovo, fino a quando la sensazione sgradevole nel petto non cessava di esistere.
Allora, Serenity gli circondava le spalle con le sue braccia esili, aderendo il suo corpo a quello di lui e sussurrando parole d'amore a fior di labbra.
In questo modo, credeva di essere amato.
Ma forse si sbagliava.
Ebbro delle sue certezze, mai notò lo sguardo colmo di compassione che Serenity rivolgeva alla piccola Lady o le poche parole che rivolgeva a Lui, se non costretta dal cerimoniale di corte.
Lei c'era, ogni giorno, ogni notte. E a lui bastava.
Fino a quando anche la Favola tra le favole cambiò dispettosa il proprio finale.
«Serenity, il Cerimoniere è tutta la mattina che attende di essere ricevuto.» Era entrato nella loro stanza, sicuro di saperla in nessun'altra parte se non lì. E come una tela di un pittore privo di fantasia, Serenity sedeva sui soffici guanciali, osservando le gocce di pioggia scivolare selvagge sui vetri opachi. In un primo momento non parve udirlo, preferendo forse il suono della pioggia alla sua voce. I biondi codini le ricadevano sulle spalle in modo disadorno, mentre una scarpetta argentata spuntava da sotto la lunga veste. Un braccio diafano sorreggeva stancamente il suo capo, mentre l'altro giaceva abbandonato sul suo grembo.
Pareva il ritratto di una ragazzina sognatrice. In realtà, era la donna più importante di Crystal Tokyo.
Quando si voltò verso di lui, i suoi occhi si allargarono per la sorpresa.
«Endymion... credo, credo di essermene dimenticata. Sono una sciocca!» Aveva esclamato, mentre le sue guance imbarazzate assumevano un colore rosato.
«Sei la Regina, non puoi dimenticarti di queste cose. Non è decoroso saperti a questa finestra tutto il giorno. Senza fare niente, poi.» Le disse, duro come la roccia di uno scoglio. Serenity lo guardò con i suoi occhi azzurro pallido, rimanendo in silenzio.
Dischiuse più volte le labbra, mentre la stretta delle mani attorno alla seta della sua veste andava aumentando. Appariva combattuta, quasi tormentata, ma Lui non sembrò dare molto peso al suo comportamento.
«... non ti sei mai... domandato che forse stavo male? Intendo, tutte le volte che mi vedevi a questa finestra.» Domandò con voce flebile, in cui - tuttavia - pareva esistere un residuo di speranza.
Lui aveva aggrottato la fronte e liberato una mezza risata. «Serenity, la Corte brulica di dottori che non vedono l'ora di curarti.»
A quelle parole, lei si era ritratta, accigliata. Tornò col capo verso la finestra e la vide osservarlo attraverso il suo riflesso.
«Ti prego, riferisci al Cerimoniere che domattina lo incontrerò nella Sala del Trono e porgigli le mie scuse.» Detto ciò, lui abbandonò la stanza e mai potè ricordare lo sguardo colmo di determinazione della Regina Serenity.
Quel giorno si meravigliò di non trovarla alla finestra. La stanza era talmente immensa e regale, che il più grande disordine rimaneva celato. Aveva discusso con il Cerimoniere di Corte, dal momento che Serenity non si era presentata neppure quel giorno. Il cinquantesimo anniversario dell'Incoronazione era ormai prossimo e tutto il palazzo era in fermento per i preparativi. Makoto e Minako erano le più entusiaste, ma ciò non sorprese affatto il resto delle Guerriere Sailor.
«Serenity!» La sua voce risuonò come un eco nella stanza, ma nessuno rispose ed essa ricadde nel silenzio. Il mantello scivolò lungo l'armatura leggera che proteggeva le sue gambe, mentre la porta si richiuse alle sue spalle. Nascosta dietro un pesante drappeggio, Chibiusa attendeva il padre con uno sguardo che Endymion non riuscì a decifrare.
Uscì dall'ombra che l'avvolgeva, stringendo in una mano un piccolo foglio di carta e torturandosi una ciocca di capelli con l'altra. Il suo volto era arrossato per lo sforzo, gli occhi lucidi e sul punto di liberare un fiume ininterrotto di lacrime. Tracce salate ormai scese rigavano le sue guance. Pareva il ritratto della disperazione, lei solitamente così vivace e fiori. Solitamente così simile a Serenity, nello sguardo, nei gesti.
«Padre, questo... questo è...» Balbettò, porgendo il foglio stropicciato verso il genitore, mentre il braccio sospeso tremava leggermente. Endymion non attese oltre, dispiegò il pezzo di carta che portava in un angolo lo stemma della famiglia Reale e lesse le poche righe che una calligrafia infantile aveva tracciato su di esso.
Figlia mia,
perdona tua madre che non è stata in grado di consegnarti questa lettera di persona. Non è necessario che tu sappia i risvolti che mi hanno impedito di abbracciarti per un'ultima volta, però desidero che tu ti sieda alla mia finestra quando leggerai queste righe. Probabilmente, tutto ciò che leggerai in questa lettera ti parrà egoistico e privo di senso, mi odierai e non ti biasimerò per questo. Non impiegherò tempo a raccontarti la mia storia, tu stessa hai avuto modo di viverla sulla tua pelle da bambina; per questo saprai quanto io sia pasticciona e molto spesso sconclusionata.
Non ho mai compreso i problemi di matematica e non sò a memoria la maggior parte dei kanji come Ami, eppure ho governato per anni questo regno, ho seduto giorno dopo giorno su quel trono e ho guidato il mio popolo secondo giudizio, amore e pace.
Dal giorno in cui sei nata, ho ringraziato Dio per il dono di averti avuta. Sono stata sommersa dai gioielli, ma tu sei sempre stata la gemma più preziosa di tutte. Il tuo sorriso, così identico a quello di tuo padre, è stato la mia forza in ogni battaglia e la mia consolazione in ogni fine.
Adesso, mi accorgo che il nostro amore è stato la tua condanna a morte.
Potessi cancellare il passato, fuggirei il giorno stesso della tua nascita oppure ti abbandonerei - odiandomi, probabilmente - ma con la consapevolezza di averti donato un futuro splendente... un futuro più libero. Più libero del mio.
Perchè è la libertà, bambina mia, che manca alle Regine come noi. Che è mancata a me. Io amo il mio popolo, lo amerò per sempre, ma per me tutto si è fatto insostenibile, tutto si è fatto grigio. Ho sentito l'amore di tuo padre mancare giorno dopo giorno, ora dopo ora ed è stato come morire lentamente asfissiata per mancanza di ossigeno. Quella finestra, alla quale spero tu sia seduta, è stata la mia unica salvezza mentale da molti anni a questa parte.
Se affondi lo sguardo nel cortile, oltre la fontana dei Delfini, al di là del getto d'acqua limpida, noterai il cancello della Reggia stagliarsi alto nel cielo, con le sue punte affilate. Nei giorni di pioggia in cui l'unica cosa che desidererai sarà la libertà, quel cancello ti sembrerà insormontabile.
Quando leggerai questa lettera, io avrò oltrepassato quel cancello. La mia fuga, se così la si può definire, è un segreto che ti prego di non rivelare. O per lo meno, non subito. Mi odio, bambina mia, perchè fuggendo condanno te alla mia stessa vita. Per questa ragione, quando ti sentirai triste, siediti alla mia finestra ed io ti donerò tutto il mio conforto. Il giorno che ti sentirai stanca e demotivata, raggiungimi. Fuggire non è un'onta, non è un peccato. E' semplicemente un desiderio di libertà, nient'altro.
Fai leggere queste righe a tuo padre e sii forte anche per lui.
Endymion, per quanto i fatti siano contro queste parole, ti ho amato e sempre ti amerò, benchè la prigione di vetro in cui mi hai rilegata è stata fonte di mille e più sofferenze. Probabilmente, ti sei sempre domandato cosa provassi nel fissare l'esterno, cosa trovassi di così speciale in quella finestra. Quando ho tentato di trasmetterti il mio malessere, tu hai riso e mi sono sentita un burattino nelle abili mani di un burattinaio. Non ero più la Usagi del passato, nè la Principessa Serenity, solo una bambola con gli ingranaggi spezzati.
E' stato allora che ho deciso di allontanarmi dal palazzo.
Nessuno sà dove sono, solo le Guerriere Sailor ne sono a conoscenza. Non forzarle a riverlarti dove si trova il mio rifugio, perchè il patto di Fedeltà Eterna che le lega a me è inscindibile. Non ti chiedo di dimenticarmi, sò che non ci riusciresti e probabilmente nemmeno io vorrei... perchè ciò che ci lega è amore eterno ed esiste.
Chibiusa, Endymion, come donna e non come Regina mi inchino di fronte a voi e al mio popolo. Il momento di piegare questo piccolo rimasuglio di carta è giunto, la Libertà mi ha teso la mano ed io l'ho afferrata.
Perdonate la sciocca Usagi.
Vi amo.
Serenity.
La mano di Endymion si serrò all'improvviso, facendo gemere le fibre di carta.
Il suo sguardo scivolò al di sotto del nome di Serenity, posandonsi su quattro righe inchiostrate in modo maldestro. Lesse, combattendo lo sguardo che diveniva via via sempre più velato dalle lacrime.
Non avessi mai visto il sole,
avrei sopportato l'ombra
ma la luce ha aggiunto al mio deserto
una desolazione inaudita. *
Ed allora comprese di aver perso ciò che in realtà non aveva mai avuto.
Note a fondo pagina: *Emily Dickinson